Cosa sono le microplastiche e perché fanno male alla salute umana e del Pianeta - LifeGate

2022-08-13 04:54:45 By :

Cosa sono e dove si trovano le microplastiche che soffocano i mari e gli oceani e inquinano la filiera alimentare. Con una piccola guida sui prodotti che contengono microplastiche e cosa si sta facendo per eliminarle.

Le microplastiche sono quelle piccole particelle di plastica che inquinano i nostri mari e oceani. Si chiamano così perché sono molto piccole e hanno un diametro compreso in un intervallo di grandezza che va dai 330 micrometri e i 5 millimetri. La loro pericolosità per la salute dell’uomo e dell’ambiente è dimostrata da diversi studi scientifici, i danni più gravi si registrano soprattutto negli habitat marini ed acquatici. Ciò avviene perché la plastica si discioglie impiegandoci diversi anni e fintanto che è in acqua può essere ingerita e accumulata nel corpo e nei tessuti di molti organismi.

Esistono anche particelle più piccole, che prendono il nome di nanoplastiche, ma date le dimensioni sono impossibili da campionare con le attrezzature oggi a disposizione. Di queste, dunque, sappiamo ancora poco. Questo approfondimento è dedicato alle prime, alle microplastiche e tenta di dare un’idea delle “dimensioni” del problema e come i governi e le organizzazioni internazionali lo stanno affrontando. Ma partendo dalle origini, cioè da dove nascono le microplastiche, questi frammenti che sono “briciole” di polimeri più grandi, le cosiddette “plastiche prime“.

La plastica quando finisce in acqua si discioglie n frammenti più piccoli per molti motivi, dall’effetto dei raggi ultravioletti al vento, dalle onde ai microbi e alle alte temperature. Dato che sono tanti gli elementi che concorrono al deterioramento della plastica in mare, è difficile dire con precisione quanto un singolo polimero impiega a diventare microplastica. A prolungarne la frammentazione concorrono inoltre anche gli additivi chimici utilizzati durante la produzione che conferiscono ai materiali determinate caratteristiche, come le plastiche antimicrobiche o i ritardanti di fiamma che le rendono più resistenti ai raggi ultravioletti, fino all’impermeabilità.

Dagli anni Trenta alla prima decade degli anni Duemila, la produzione mondiale di plastica è passata da 1,5 milioni di tonnellate a oltre 280 milioni di tonnellate (con una crescita del 38 per cento negli ultimi 10 anni). La conseguenza è ovvia: più plastica viene utilizzata, più ne viene buttata, direttamente o indirettamente, nei mari: almeno otto milioni di tonnellate l’anno, secondo Greenpeace.

In ambiente marino la plastica è presente in moltissime forme: sacchetti, piccole sfere, materiale da imballaggio, rivestimenti da costruzione, recipienti, polistirolo, nastri e attrezzi per la pesca. È stato quantificato, però, che i rifiuti plastici provenienti da terra costituiscono circa l’80 per cento di tutti i detriti plastici che si trovano nell’ambiente.

“Gli impianti di trattamento delle acque sono in grado di intrappolare plastiche e frammenti di varie dimensioni mediante vasche di ossidazione o fanghi di depurazione”, spiega Rosalba Giugni, presidente dell’associazione Marevivo, “tuttavia una larga porzione di microplastiche riesce a superare questo sistema di filtraggio, giungendo in mare” dopo essere stati gettati nei fiumi che sfociano nei mari e negli oceani.

Una volta in mare queste sostanze vengono ingerite dalla fauna (in particolare da plancton, invertebrati, pesci, gabbiani, squali e balene) arrivando addirittura a modificare la catena alimentare. Il 15-20 per cento delle specie marine che finiscono sulle nostre tavole contengono microplastiche secondo l’Ispra, mentre per i ricercatori dell’Università nazionale d’Irlanda che hanno pescato nel mare del Nord i pesci mesopelagici che vivono tra i 200 e i 1.000 metri di profondità, la percentuale salirebbe addirittura al 73 per cento.

La plastica ingerita da pesci, molluschi e crostacei finisce pure nei nostri piatti. Il rischio è, dunque, anche per gli esseri umani: gli inquinanti rilasciati dalle microplastiche possono essere ingerite e finire nel nostro organismo. Tali inquinanti possono interferire con il sistema endocrino umano fino a produrre alterazioni genetiche.

In particolare grande preoccupazione danno le elevate concentrazioni di agenti come gli inquinanti organici persistenti (Pop) – tra i quali ci sono i policlorobifenili (Pcb) e il diclorodifeniltricloroetano (ddt) – chiamati così perché tossici e resistenti alla decomposizione. Secondo i dati raccolti da International pellet watch, grandi quantità di Pcb sono state rilevate sulla costa settentrionale della Francia, nello stretto della Manica, mentre ingenti tracce di ddt sono state trovate sulla costa lungo l’Albania. Questo dimostra che sebbene siano altre le zone dove si accumula la maggior parte di plastiche in mare, gli inquinanti vengono trasportati ovunque permanendo nelle aree di mare chiuso parzialmente.

Ogni chilometro quadrato di oceano contiene in media 63.320 particelle di microplastica, con differenze significative a livello regionale, secondo l’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep). Ad esempio nel Sudest asiatico il livello è 27 volte maggiore rispetto ad altre zone. Il Mediterraneo è uno dei mari più inquinati al mondo: qui si concentra il 7 per cento delle microplastiche a livello globale. Inoltre ci sono cinque regioni oceaniche (dette gyres) dove, per via delle correnti, si accumulano le più grandi quantità di detriti.

L’Unep ha collocato il problema della plastica nei mari e negli oceani tra le sei emergenze ambientali più gravi. Se non interveniamo subito, entro il 2050 ci sarà più plastica che pesce nei nostri mari.

Negli anni Novanta il settore della cosmesi e i produttori di prodotti per il make-up hanno cominciato a inserire “microsfere” nei detergenti per la pelle, nei dentifrici, nelle creme da barba. A metà degli anni Duemila i controlli hanno ritrovato queste microsfere di plastica in natura e nei sistemi idrici pubblici, finendo così anche nell’acqua che sgorga dal rubinetto di casa.

Le fibre dei tessuti sintetici sono una fonte significativa di microplastiche, rinvenute in acque reflue e nell’ambiente acquatico. Il consumo delle fibre sintetiche è cresciuto molto nel settore dell’abbigliamento domestico e industriale – arrivando a rappresentare il 61 per cento della domanda di fibre a livello globale.

Le fibre di plastica, come poliestere, acrilico e poliammide, vengono “erose” attraverso i lavaggi in macchina e poi drenati nei sistemi idrici. La Norwegian environment agency ha rilevato che ogni singolo indumento, a ogni singolo lavaggio, rilascia fino a 1.900 fibre sintetiche. Per questo, secondo la stessa fonte, le emissioni di microplastica nelle acque derivate dal lavaggio di indumenti supera quello dei cosmetici, costituendo il 35 per cento di tutte le microplastiche in acqua.

La parte esterna del pneumatico è costituita da polimeri sintetici mischiati a gomma e altri additivi. Un buon numero di microplastiche deriva così dallo sfregamento degli pneumatici sull’asfalto durante la guida, secondo una ricerca dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn). Le fibre di plastica rilasciate così nell’ambiente vengono trasportate negli ambienti marini dall’azione del vento e dalle piogge. La ricerca spiega che anche i cartelli stradali, prodotti in termoplastica, rilasciano piccole particelle per via degli agenti atmosferici.

Le navi rappresentano tutt’oggi una rilevante fonte di rifiuti marini: nonostante un accordo internazionale introdotto nel 1988 che vieta ai pescherecci di abbandonare in mare reti e scarti di plastica, si stima che solo nei primi anni Novanta siano state immesse in mare 6,5 milioni di tonnellate di questo materiale.

Dal 2015 combattere l’inquinamento marino è uno degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable development goals, Sdg), il numero 14 per la precisione. Intanto sono diverse le leggi che ogni singolo stato ha introdotto per risolvere il problema.

Nel dicembre 2015 l’allora presidente Barack Obama ha firmato la legge Microbead-Free Waters Act 2015, introducendo il divieto per i produttori di cosmetici di aggiungere intenzionalmente piccole sfere di plastica nei prodotti “da risciacquo”, come dentifrici e creme per la pelle. Sebbene questa legge non includa altri cosmetici come quelli per il make-up, è stata di ispirazione per altre leggi nel mondo. Per quanto riguarda altre iniziative, sono diverse le leggi a livello locale che ciascuno stato o città ha deciso di introdurre. Da citare il caso della città di San Francisco dove saranno bandite le bottiglie di plastica a partire dal 2020.

Nel Vecchio continente, il Regno Unito ha introdotto lo stesso divieto allargando a tutti i prodotti cosmetici il divieto di aggiungere microplastiche. Inoltre la regina Elisabetta II ha dichiarato di voler abolire nella casa reale l’uso della plastica monouso, sostituendola con quella biodegradabile. Inoltre, sempre rimanendo nel Regno Unito, la catena di supermercati “Iceland” ha deciso di bandire le confezioni in plastica entro il 2023 sostituendole con quelli biologici o in cartone. I supermercati inglesi producono ogni anno 800mila tonnellate di rifiuti dagli imballaggi.

In Italia, paese che produce il 60 per cento dei cosmetici mondiali secondo quanto riferisce il deputato Ermete Realacci, si sta cercando di portare avanti un disegno di legge per vietare le microplastiche nei cosmetici che, però, ora è fermo alla Camera da due anni. Diverse organizzazioni ambientaliste, tra cui Marevivo, Legambiente, Greenpeace, Lav, Lipu, MedSharks e Wwf, hanno sottoscritto un appello consegnato al Senato per chiederne l’applicazione a partire dal 2020. Intanto il nostro paese ha messo al bando i cotton fioc non biodegradabili e recentemente ha introdotto l’uso di sacchetti biodegradabili in tutte le attività commerciali. Su questo l’Irlanda è stato uno dei primi paesi europei a muoversi, introducendo già nel 2002 una tassa per ogni sacchetto venduto (che oggi è più di 20 centesimi di euro). Stessa misura adottata da Galles, Belgio e Danimarca. In Inghilterra invece la stessa regola vale solo nei esercizi commerciali con più di 250 impiegati.

Durante la riunione plenaria del 16 gennaio 2018 al parlamento europeo di Strasburgo, la Commissione europea ha presentato la sua strategia per la lotta ai rifiuti plastici. Ogni anno gli europei generano 25 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, ma meno del 30 per cento è raccolta per essere riciclata. Nel mondo, le materie plastiche rappresentano l’85 per cento dei rifiuti sulle spiagge. L’obiettivo è rendere tutti i rifiuti da plastica prodotti in Europa riciclabili entro il 2030, aumentando anche il ricorso al riuso – che oggi nel continente è solo al 30 per cento del totale – e ridurre l’uso di microplastiche.

“Accogliamo con favore la strategia ma occorre sostituire totalmente la plastica usa e getta, ad esempio le stoviglie ottenute dal petrolio, che purtroppo finisce nelle discariche o viene incenerita”, aggiunge Rosalba Giugni, presidente di Marevivo, che ha appena lanciato una nuova campagna per la sostituzione delle cannucce con materiali biodegradabili. Nel documento europeo sono presenti anche disposizioni per i rifiuti prodotti dalle imbarcazioni e misure volte a ridurre i costi che gravano su porti, navi e autorità competenti, “ma è urgente che venga approvata una legge per cui possano essere correttamente smaltiti una volta riportati a terra dai pescatori, per ridurne la dispersione in mare”. Secondo l’Ue il piano potrebbe creare ben 200mila nuovi posti di green jobs.

La Cina, il più grande riciclatore di plastica al mondo, ha chiuso i battenti all’importazione di plastica dal resto del mondo per concentrarsi sul quella prodotta internamente. Dopo l’annuncio dato nel luglio 2017, dal primo di gennaio il presidente Xi Jinping è passato ai fatti, bloccando l’importazione di 24 materiali, tra cui plastica, carta, tessuti e alcuni metalli, portando il riciclaggio domestico a 350 milioni di tonnellate all’anno entro il 2020.

Tra i paesi che nel mondo hanno vietato l’uso di sacchetti di plastica ci sono molti paesi africani: Sudafrica, Eritrea, Ruanda e più recentemente il Kenya. Persino l’India, dove il problema della plastica alimenta roghi illegali, ha bandito da circa un anno la produzione di plastica monouso, a partire dalla capitale Nuova Delhi.

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